Non è la prima volta che con Piazza della solitudine sperimentate la pratica della residenza artistica, come definireste quella di Artefici?

Giulia: Provo a rispondere con una metafora. Durante il periodo di residenza di Artefici abbiamo avuto la sensazione di essere ospitati a casa di qualcuno che, nonostante ti conosca da poco, si fida di te perché gli piaci, perché ti ha scelto e con naturalezza ti lascia le chiavi di casa, si premura di sapere come procede la tua permanenza, ti invita a installarti come meglio credi nel suo spazio, ti fa conoscere i suoi familiari e i suoi amici più stretti perché tu possa sentirti “a casa”, si prodiga perché il tuo soggiorno sia prezioso e non ti manchi niente. La cosa ancora più straordinaria è che il tuo ospite sa che sei in città, nella sua casa per lavorare a un progetto artistico e decide di metterti a disposizione anche parte delle sue risorse economiche: decide di destinare a te e al tuo lavoro di creazione una parte delle sue economie perché tu possa lavorare senza pensieri. Risponde al telefono quando lo cerchi, tutti i suoi amici rispondono al telefono quando li cerchi e le sue relazioni, diventano, grazie al tempo a disposizione e alla cura di entrambi, anche le tue.

 

Perché il tema della solitudine? Potete raccontarci come si è sviluppata l’idea del progetto, qual è stata la scintilla da cui tutto è nato?

Giulia: La scelta del tema parte da una condizione personale che è diventata nel tempo e grazie alla condivisione motore per la ricerca e la creazione artistica. Poco più di un anno fa Natalie si è resa conto che stava soffrendo molto di solitudine, non solo di una solitudine personale, ma anche artistica. Dopo anni di lavoro in cui aveva realizzato molti progetti indipendenti in maniera collegiale, con artisti diversi con cui aveva condiviso percorsi personali e professionali, si era ritrovata sola. Le persone con cui aveva lavorato si erano spostate in altre città, avevano scelto di approfondire altri percorsi. Finché questa condizione non si è tradotta in una domanda “Perché non trasformare questa solitudine da condizione subita a materia di ricerca?” E questa domanda si è tradotta in incontri personali e professionali con gli altri artisti coinvolti oggi in Piazza della Solitudine.

Natalie: Una volta presa quella decisione, mi sono chiesta con chi avrei voluto lavorare. Non mi sono data limiti, neanche di tipo geografico e così, con una strana magia che si è venuta a creare da subito, sia Marie-Hélène che Giulia hanno accettato di far parte del progetto nonostante le distanze: Marie viva in Canada, Giulia a Milano e io mi barcameno tra Milano e Udine. Siamo riuscite nel giro pochi mesi a fare una tappa di lavoro a Pozzuolo (Ud) con un gruppo di adolescenti di un centro giovani e una residenza in Québec sostenute dal bando Movin’Up che ha selezionato Piazza della Solitudine come uno dei progetti vincitori di quest’anno. Lì siamo state accolte dal Petit Theatre du Vieux Noranda che sostiene tutt’ora il nostro lavoro. ARTEFICI ci ha poi dato la possibilità di integrare nel gruppo Sandro (Pivotti) insieme al quale abbiamo fatto crescere ulteriormente il lavoro. Se la condizione di partenza era quella di una solitudine “subita”, nel momento in cui sono stata in grado di esternare questa condizione e osservarla come un oggetto (prezioso e faticoso) mi sono ritrovata in compagnia. Non voglio dire che basti parlare di solitudine perché questa condizione scompaia, e soprattutto non voglio dire che sia una condizione che deve sparire per poter vivere meglio (anzi!). Sono convinta, però, che cercare di parlarne sia importante, che sia importante farlo insieme a tante persone e, meglio ancora, in un luogo pubblico. L’immagine che portiamo dentro al lavoro è quella di un’agorà in cui discutere, condividere ed emozionarci insieme intorno a questo tema così ricco e complesso.

Durante la residenza a Gorizia avete incontrato le cittadine e i cittadini. Ciascuno di voi ha messo in gioco diversi approcci e competenze, legati anche a discipline artistiche differenti. In che modo avete affrontato il tema della solitudine? Ci potete raccontare qualcosa di quanto emerso dal dialogo con loro?

Giulia: Per affrontare il tema con i cittadini e le cittadine di Gorizia abbiamo creato delle occasioni di incontro: un aperitivo in uno dei caffè più frequentati della città; la posa di una “panchina blu della solitudine” – così ha tenuto a specificare la questura nel permesso di occupazione del suolo pubblico – al mercato coperto, in Piazza Sant’Antonio, ai Giardini pubblici; una camminata della solitudine nella città. Durante questi incontri abbiamo dato vita, attraverso domande semplici e dirette, a una conversazione condivisa sul tema. Abbiamo chiesto alle persone che hanno partecipato o che si sono ritrovate nel processo, di indicarci sulla cartina di Gorizia dei luoghi in cui nel periodo della loro adolescenza amavano recarsi per stare da soli e di pensare a una canzone legata a quella condizione di solitudine. Queste domande sono diventate la nostra bussola per orientarci negli incontri, nella città e per iniziare un dialogo con i nostri nuovi interlocutori. Dialogando con loro abbiamo attraversato solitudini personali dovute a cambiamenti voluti o subiti (la fine di una relazione, la ricerca di un nuovo lavoro, il rapporto con la vecchiaia di una persona cara, il ricollocamento in un’altra città…) e abbiamo scoperto quanto la vita e la storia di una città influenzino il rapporto con la solitudine di chi ci vive e/o l’attraversa.

Quali saranno le prossime tappe e l’obiettivo finale di questo processo di ricerca?

Giulia: Sarà uno spettacolo in cui la drammaturgia si compone di scene al contempo strutturate ma aperte. Vuol dire che ci saranno degli appuntamenti fissi nella composizione dello spettacolo che lasciano aperta una porta, e quindi una e più possibilità, allo spazio e al tempo in cui ci ritroviamo a presentare e replicare il lavoro. A seconda del luogo e del cast in scena potrebbero esserci delle variazioni su un contenuto e una forma prestabiliti. Ad esempio, dal punto di vista formale possiamo immaginare di avere una scaletta fissa, come l’indice di un libro o l’elenco di una playlist: ci sono dei titoli, un determinato numero di tracce e dei contenuti – testi, suoni, immagini, azioni – che ci permettono di raccontare le stagioni di una vita, dall’infanzia alla vecchiaia dal punto di vista di una condizione dell’anima, la solitudine. Forse possiamo azzardare nel dire che la storia non sarà una sola, ma lo spettacolo sarà composto da un collage di ricordi, avvenimenti, situazioni, proiezioni. Ecco, questo spettacolo sarà un collage dove i frammenti di storie e altri svariati materiali saranno organizzati tra loro in maniera solo apparentemente casuale: il filo rosso che li attraversa è il rapporto di ogni elemento con la solitudine, ricercata o obbligata, consapevole o inconsapevole, rifugio o tempesta.

Natalie: Per quanto riguarda le prossime tappe di lavoro, al momento stiamo partecipando a diversi bandi per altre residenze artistiche, siamo in contatto con alcuni teatri in Francia e in Canada con i quali pianificare delle sessioni di lavoro che coinvolgano un gruppo di cittadini. Inoltre entro la fine di questa stagione dovremmo tornare al Petit Theatre du Vieux Noranda per una residenza finale, in cui mettere a punto, anche dal punto di vista tecnico, il lavoro.

Avete fatto delle scoperte inattese attraverso questa residenza?

Giulia: Grazie a questa residenza abbiamo messo a fuoco quali sono i filoni della nostra ricerca, Abbiamo capito che Piazza della Solitudine è un progetto artistico ombrelliforme che contiene sotto di sé tre pratiche di lavoro e, quindi, di processo di creazione e di restituzione. Ci sono delle azioni che proponiamo ai cittadini/e nell’ambiente pubblico come la camminata della solitudine – un percorso a tappe nella città che coinvolge un gruppo di cittadini e li accompagna nei luoghi della solitudine che loro stessi o altri abitanti hanno individuato nello spazio urbano; ci sono degli atelier con gruppi di cittadini/e che portano a un racconto corale sotto forma di performance dell’esperienza vissuta; c’è una performance teatrale che trasforma lo spazio del teatro e del palco in un agorà dove attraverso immagini poetiche e dibattiti scenici si affronta il tema della solitudine nella sfera privata e nella sfera pubblica della città. Questa residenza ci ha permesso di approfondire il primo filone e di specificarlo nello spazio urbano e di fare esperienza della sala teatrale come luogo di restituzione delle nostre riflessioni e delle nostre proposte artistiche. Pensare e realizzare una performance in uno spazio teatrale ci ha permesso di individuare le potenzialità di far “esplodere” il nostro tema nella scatola scenica e ci ha suggerito delle preziose domande a cui dare risposta nella prossima sessione di lavoro.

 

Foto di Giovanni Chiarot

 

 

Laura Pizzini